Questa mostra è composta da una serie di lavori fotografici realizzati da Marta Campioni. La serie, intitolata Tempo sospeso, è divisa in due parti (“doppie esposizioni” e “lunghe esposizioni”). A seguire, riportiamo direttamente le parole dell’artista che ha concepito le opere in questione.
Tempo sospeso– Marta Campioni.
“Sono tante le cose che abbiamo da dirci. Catene di parole che ci portiamo dentro con la coscienza spaventata. Nuove strade cerchiamo di percorrere con la speranza di dimenticarci chi siamo. Cosa siamo. Insieme. La paura sormonta i mari delle insicurezze che ci pungolano. Fermentiamo silenzi che si espandono e lievitano e ci accrescono il ventre. Abbiamo la pancia piena e la bocca svuotata. Perché non riusciamo a sintetizzare in versi sbiascicati quello che dovremmo? Perché ci incateniamo a forti scompensi, apparendo allegri, forti, con sorrisi che non sono i nostri? Dentro implodiamo di dolore, per non far avvertire agli altri la nostra presenza annullata, vogliamo essere invisibili, ma l’incapacità di usare un linguaggio verbale, accentua e rinforza il linguaggio del corpo. Abbiamo nodi e groppi di dispiaceri e azioni commesse per sbaglio. Più stiamo fermi e più comunichiamo, con il nostro star indifferenti, con lo sguardo nel vuoto, con le mani che cercano appigli su stracci di carta. Cercando di tirar fuori in malo modo quello che dovremmo, cosa ne viene fuori? L’incatenamento dei nostri corpi, l’intorpidimento del nostro esserci in un dato momento e in un dato luogo. L’incomunicabilità come comunicazione più diretta. Quando non vogliamo parlare, diciamo tutto con altri mezzi. Il silenzio, il vuoto sono invece parole piene. La dimostrazione più consistente del nostro dolore. Saremo sempre appesi ad un filo, legati forzatamente, senza poter guardare, senza poter parlare, senza toccare. Senza guardarci, parlarci e sentirci. Il confine paradossale della vicinanza più lontana.”
Scelgo la fotografia come linguaggio espressivo per la possibilità di immortalare la fugacità dell’inesistenza puramente fisica. Aggrappandomi alla sfera dell’intimo, del subconscio e della visione del corpo, estrapolo questi concetti da un ambito prettamente retinico, liberandoli e rendendoli altro. Amo il mio corpo quando non lo vedo come un corpo, inizio ad amarlo dal momento in cui mi estraneo dalla sua potenza materica e ne faccio un qualcosa che sta al di sopra. Con la fotografia immortalo quello che non sono capace di vedere quando sono con me. Mi sposto, è come se uscissi da me, da quando inizio a muovermi e rientro fermandomi. È una questione di otturazioni, mentali e meccaniche. Io mi otturo i sensi.